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CONTARE E CLASSIFICARE Ovvero la perfidia e la violenza nascoste nell’ovvio

  Chi si è lasciato incuriosire dal titolo si domanderà se è di matematica che mi interessa parlare dal momento che contare eclassificare sono tra le prime competenze logico-matematico-numeriche che apprendiamo a partire da quando siamo bambini. Non è mia intenzione redigere un trattatello di matematica bensì accompagnarvi in una riflessione sul modo in cui queste due attività vengono utilizzate e sul senso che esse assumono nella vita quotidiana e, in particolare ma non solo, nella vita della scuola primaria, alias “elementare”.

 

  Presto nella vita siamo in grado di contare e usiamo questa abilità per stabilire il possesso, per numerare ciò che è nostro, per gestire ciò su cui abbiamo il dominio. Il pronome o l’aggettivo interrogativo quanti presuppongono sempre un possesso, un avere, un comprare, uno scambiare. Quanti soldi hai? Quanti anni hai? Quanti ne vuoi? L’azione di contare sottintende l’azione di dominio di colui che conta: Il pastore conta le sue pecore perché dispone dei loro prodotti e della loro vita, il cassiere conta i soldi del suo incasso perché dispone del valore di quella moneta, il magazziniere conta i suoi colli da trasportare perché dispone della movimentazione di quella merce. Ciò che invece non ci è possibile contare non è, nemmeno
potenzialmente, nel nostro dominio; non è possibile contare tutte le stelle in cielo e nemmeno tutti i granelli di sabbia della spiaggia.

 

  Questo infatti non è dominio né possesso, è contemplazione, godimento e, semmai, poesia. In ambito educativo mi si dirà che il dominare, il possedere non hanno diritto di cittadinanza come concetti, ma proverò a dimostrare che è piuttosto vero il contrario e che la tendenza a contare e a classificare si è manifestata nelle istituzioni scolastiche più o meno timidamente (anche se sarebbe più corretto dire velatamente e sotto mentite spoglie) almeno trent’anni fa e si è poi acuita pericolosamente nell’ultimo decennio. A scuola si fa un gran contare e non sono certo gli alunni con le loro esperienze matematiche a farlo. Si contano gli studenti per attribuire le risorse dei docenti nel numero più economico possibile, si contano gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento per distribuirli nelle classi, si contano gli alunni con bisogni educativi speciali per armonizzare il piano didattico, si contano i minuti di lezione perché sembra che raggiungere un fantomatico equilibrio sia sinonimo di buona scuola (!), si contano e si catalogano i risultati delle prove comuni, delle prove Invalsi.

 

  Appare ovvio che sia necessario contare, ovvio e naturale, ovvio e auspicabile per una gestione efficace ed efficiente della scuola. Risulta sì ovvio, ma invece che auspicabile io sostengo che ciò, lungi dall’essere naturale, sia invece oltremodo perfido.
In educazione, ma in realtà in ogni e qualsiasi relazione umana, ciò che importa davvero è l’unicità dell’individuo. Basterebbe quindi questa premessa a rendere del tutto ottusi e superflui conteggi e classificazioni; questi risultano invece funzionali a inserire i soggetti in un determinato gruppo sulla base di caratteristiche che si presuppongono comuni o che fa comodo ritenere comuni.

 

  Per fare un esempio pratico: tutti i bambini nati nel 2016 vengono iscritti alla prima classe della scuola primaria sulla base del dato presunto che a quell’età anagrafica il percorso di apprendimento sia identico per tutti e pertanto uniformabile a una linea comune definita a priori. Questa è una prima classificazione forzata che riduce l’individuo a numero. Un uno identico a tanti altri, un uno sostituibile con un altro senza che risulti alterata la fisionomia del gruppo che infatti viene nominato a sua volta con un numero: la I A, la IV B …

  Discendono da qui tutti i discorsi su personalizzazione degli apprendimenti e inclusione che sono solo vuota retorica e luoghi comuni come ben sa chi frequenta le scuole italiane e ha conservato un minimo di onestà intellettuale per ammetterlo. Le classi formate e funzionanti sulla base del solo requisito dell’età anagrafica sono funzionali soltanto all’economia del sistema-scuola e non possono certo essere stimolanti per l’apprendimento e meno che mai potranno custodire e incentivare i talenti ed elevare la stima di sé dei giovani.

 

  Per fare un altro esempio pratico: sottoporre gli alunni a test finalizzati alla loro selezione in soggetti con disturbi specifici di apprendimento o meno, è perfido oltre che inutile.

 

  Selezionare, discriminare, separare, catalogare, etichettare. Cui prodest scelus, is fecit fa dire Seneca a Medea; e anche nel contesto scolastico-educativo trovo lecito chiedermi a chi giova questa scelleratezza: forse a chi l’ha architettata?

 

  Ecco perché considero perfido convincere docenti e genitori che i test, le selezioni, le separazioni, le discriminazioni servono a facilitare il processo di apprendimento degli alunni, piccoli o grandi che siano. Perfido perché chi cerca di convincere della bontà delle azioni sa perfettamente che l’intento è ben diverso ed è quello di etichettare per separare, di classificare per emarginare, di contare per dominare.

 

  Una scuola che funziona invece accoglie ogni individuo nella sua originale unicità, ne valorizza capacità e talenti, lo aiuta a riconoscere e accettare i propri limiti e le proprie difficoltà armonizzando la pluralità dei soggetti in un’unica comunità. Una scuola che funziona non fa un uso spropositato di acronimi insulsi (ADHD-DSA-BES-PTOF-PDP-PEI-PAI….vi giuro che esistono tutti!) per sembrare competente e per apporre metaforiche etichette, una
scuola che funziona non classifica e non conta. Una scuola che funziona ascolta i giovani e cammina con loro. Diversamente è addestramento, allenamento, indottrinamento. Nei casi peggiori, manipolazione.

Simonetta Pettenon insegnante e antropologa